Il Protocollo che il nostro Parlamento si appresta a ratificare è stato sottoscritto dal nostro governo così come dagli altri governi europei il 13 giugno 2012. La maggior parte dei Parlamenti europei ha approvato la ratifica del Protocollo nello spazio di 6-15 mesi. Oggi a distanza di più di 21 mesi, manca solo l’approvazione da parte del nostro Paese assieme a Belgio e Repubblica Ceca. A causa dei Paesi ritardatari il Protocollo non è entrato in vigore l’anno scorso e si attende che possa entrare in vigore quest’anno. Anche questa è solidarietà europea: se i Paesi non fanno la loro parte anche sul piano legislativo, l’Europa politica non può pienamente esercitare la sua funzione.
Stupisce del tanto tempo che abbiamo impiegato, perché dovrebbe essere nostro massimo interesse questa piena attuazione, in un momento in cui la durezza della storia ci sbatte in faccia il senso radicale dell’essere o non essere Europa.
È di ieri il volteggiare di un caccia russo per 90 minuti sopra un cacciatorpediniere americano nel Mar Nero in acque extraterritoriali al largo della Crimea.
In occasione delle imminenti elezioni del Parlamento europeo pensavamo di poterci occupare di una politica economica europea, di una politica sociale europea e di aver lasciato alle spalle per sempre le questioni della pace e della guerra, quelle per cui l’Europa è nata, come non si stancavano di ripetere i Padri fondatori ed invece ci ritroviamo ricacciati di fronte al “caso serio”, quello che mette in questione l’esistenza dei soggetti individuali e collettivi.
È di fronte al caso serio che dobbiamo decidere se “Essere o non essere Europa”, se essere uno spazio su cui altre potenze esercitano il loro potere sovrano o se essere invece un soggetto politico, una comunità di popoli che prende tra le mani il proprio destino e decide di stare nella storia come una unità politica, ossia come un soggetto che decide, che determina le proprie mete ultime, e non come mero agente economico.
Quando diciamo che la questione oggi torna a vertere sull’“essere o non essere Europa”, viene alla mente quella immagine formidabile che Paul Valery ha usato nel 1919 sulle macerie della prima guerra civile europea: «Adesso su di un’immensa terrazza di Elsinore, che va da Basilea a Colonia, si spinge fino alle sabbie di Newport, alle paludi della Somme, ai calcari della Champagne e ai graniti dell’Alsazia, l’Amleto europeo contempla milioni di spettri». Anche allora l’Europa, che vedeva declinare il proprio primato mondiale, doveva decidere se essere o non essere una comunità politica. Sappiamo qual è stata la risposta: il sorgere di devastanti nazionalismi che hanno prodotto le macerie della Seconda guerra mondiale, seconda tappa della guerra civile europea.
Di fronte a quelle macerie l’Amleto europeo si è deciso e ha cominciato il suo cammino di comunità politica centrata sulla pace, sul rispetto dei diritti dell’uomo, sulla democrazia. Attraverso questo cammino si è giunti al consolidamento dell’Unione con il Trattato di Lisbona e ancora una volta, i popoli europei, talvolta direttamente talvolta attraverso i loro parlamenti, hanno dovuto decidere se essere o non essere Europa, se darsi o no una soggettività politica. Il Trattato di Lisbona è esattamente questo: è un passo avanti fondamentale sulla strada della soggettività politica europea.
E i popoli hanno risposto sì. Lo hanno fatto talvolta con fatica, come nel caso del popolo irlandese che ha dovuto pronunciarsi due volte ed essere rassicurato prima di votare a favore del Trattato. Non erano preoccupazioni di poco conto: questioni di vita o di morte, come quelle che attengono alle relazioni primarie tra le persone o all’atteggiamento da tenere in caso di guerra come nel caso della neutralità, o ancora sugli obblighi fondamentali della solidarietà fiscale. Si può naturalmente discutere nel merito di queste preoccupazioni, ma alla radice stava e sta la domanda se la comunità politica europea che sta nascendo è in grado di tutelare più efficacemente quei diritti fondamentali, quelle scelte di fondo, quelle identità culturali di ogni popolo, che per secoli sono state affidate allo Stato moderno, che ha compiuto, accanto a tragici misfatti, straordinarie conquiste in termini di diritti della persona e di democrazia.
A queste preoccupazioni gli altri Paesi hanno risposto rassicurando con questo protocollo il popolo irlandese sulla natura pluralistica dell’Unione europea che non livella e omogeneizza ogni realtà ma rispetta e promuove la diversità, la pluralità, le identità di persone e di comunità, anche minori. Con ciò l’Europa ha ribadito la propria natura di realtà basata sul principio di sussidiarietà che non toglie l’autonomia e la responsabilità dei corpi inferiori ma la custodisce e la garantisce entro un quadro di diritti universali, ammettendo anche – secondo la migliore tradizione illuminista dello Stato liberale di diritto europeo – il diritto all’esenzione agli obblighi di legge da parte di coscienze eticamente o religiosamente motivate.
Con ciò l’Europa ha ribadito la propria volontà di lasciarsi costruire dal basso, attraverso il consenso dei popoli, attraverso un cammino di integrazione progressiva, di gradualismo per dirla con Jean Monnet, che non concepisce la democrazia come un club da cui si è dentro o fuori, ma come una forma di vita a cui uniformare sempre di più la propria vita e in cui cercare di coinvolgere sempre di più la vita degli altri.
Il Governo e il Parlamento irlandese di allora hanno svolto un ruolo fondamentale in questo processo: non hanno aizzato i sentimenti popolari contro l’Europa, ma hanno posto i cittadini di fronte alla posta in gioco. Essere o non essere Europa. Ripristinare vecchi confini, vecchie monete, vecchie incomunicabilità e pagare un prezzo altissimo alla possibilità di sviluppo culturale, sociale ed economico oppure accettare la sfida di una più forte integrazione in una comunità più grande in cui meglio garantire i diritti e le speranze delle persone.
Perché di questo, anzitutto, si tratta.
Come è noto il Trattato nell’istituire l’Unione come comunità politica la fonda sui «valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini» (art. 2)
Se l’Amleto europeo si è deciso di fronte alle macerie, è perché la Seconda Guerra mondiale non è stata solo la tragedia dei nazionalismi, è stata anche la tragedia della disumanizzazione. L’Europa, il luogo dell’umanesimo, è stata il teatro della negazione dell’umano. L’Europa ha ritrovato se stessa, ha deciso per se stessa, quando ha riconosciuto che Auschwitz è stata la sua tragedia e non solo la tragedia del popolo ebreo o dei tanti esseri umani ritenuti inferiori, ritenuti non uomini, la cui morte è stata pianificata. Per questo non si può fare ironia sui cancelli di Auschwitz. I popoli europei da anni custodiscono quella memoria storica e vi accompagnano i propri figli a vedere con i loro occhi perché si veda ciò che è stato compiuto, ciò che l’uomo europeo ha compiuto. Né si può fare ironia sulle parole straordinarie con cui la tragedia della disumanizzazione è stata con pudore inaudito descritta da Primo Levi nel suo “se questo è un uomo”. Quello che Levi chiedeva a noi che viviamo nelle nostre “tiepide case” era “Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.”
Per questo si può discutere di tutto ma non su tutto si può ironizzare. Nessuno si sogna di entrare nella casa del vicino che ha avuto un lutto e di ironizzare: con ciò si perderebbe la nostra umanità più profonda quella che in grado appunto di percepire la sofferenza e di arrestarsi in silenzio di fronte alla tragedia. Se non ne fossimo più capaci, avremmo smarrito l’umanità.
Per questo la memoria di questa disumanizzazione e il suo rispetto è così strettamente connessa alla storia e all’essere dell’Europa, come luogo dell’infinita dignità dell’essere umano.
Decidere se essere o non essere Europa, vuol dire decidere se stare nella storia non come una potenza tra le potenze ma come luogo del rispetto dell’umanità, dei diritti di ogni essere umano. Dei diritti umani, civili e sociali perché come ricorda il Trattato di Lisbona esiste anche una Carta sociale europea a cui l’Unione si è impegnata a rimanere fedele. Nell’art. 1 di quella Carta, firmata a Torino nel 1961, si legge infatti «1. Ogni persona deve avere la possibilità di guadagnarsi la vita con un lavoro liberamente intrapreso». Anche questo è un diritto che oggi più che mai va onorato da parte dei popoli europei e in primo luogo dal popolo italiano.
Anche su questo diritto dobbiamo decidere se essere o non essere Europa.