Il disegno di legge costituzionale che prevede l’”Istituzione di un Comitato Parlamentare per le riforme costituzionali ed elettorali” suscita dentro e fuori le aule parlamentari appassionate discussioni. È una fortuna che ciò avvenga. La nostra tradizione parlamentare, la nostra tradizione costituzionale si nutre non solo del rispetto della libertà di pensiero, da cui essa scaturisce e che essa deve costantemente tutelare, ma si nutre anche del gusto per la libertà di pensiero, che sa che la ricerca della giustizia possibile passa sempre e solo dall’ascolto dell’una e dell’altra parte, dal confronto con le posizioni a sé antagoniste, perché solo nel contraddittorio si mette alla prova la forza di ogni argomento. E per questo mentre ci battiamo per difendere le nostre idee, dobbiamo lasciarci prendere dall’ascolto delle ragioni altrui.
È una fortuna che la discussione costituzionale appassioni, perché ciò significa che ciò di cui si discute è avvertito non come un oggetto del passato ma come un che di vitale per la nostra esistenza. E forse se oggi la Costituzione è avvertita dalla stragrande maggioranza del popolo italiano come una realtà vivente capace di dare efficace tutela giuridica alla nostra vita personale e collettiva è anche perché attraverso le infinite discussioni, gli innumerevoli progetti di riforma e perfino i maldestri e fallimentari tentativi di alterarla è diventata sempre più la Costituzione di tutti, che ciascuno può avvertire come la “propria” Costituzione. Anche i più giovani ossia coloro che temporalmente sono più lontani dall’epoca e dalle generazioni che l’hanno scritta. In un Paese dall’educazione civica incerta questo sentimento di attaccamento alla Costituzione è un frutto certamente positivo e guai a chi interpreta tutto questo come il frutto di mere strumentalizzazioni politiche.
D’altra parte la presente formulazione di questo disegno di legge è il frutto di questa discussione, di questa messa al vaglio e se si vuole di questa “purificazione” da formulazioni e previsioni originarie che contenevano non pochi margini di ambiguità. È anche questo il segno della fecondità della discussione pubblica e parlamentare attraverso cui si forma la volontà collettiva che si esprime nelle leggi. Non perdiamo mai l’occasione, pur nella dialettica delle opposizioni, di partecipare anche costruttivamente a questa formazione discorsiva della volontà collettiva.
Il percorso che il disegno di legge propone nella sua forma attuale ha abbandonato ogni volontà costituente che a ben guardare tende ad annidarsi nell’animo di ogni legislatore. E ad abbandonare questa pretesa è utile la “coscienza storica”. Qualcuno si accosta alla Costituzione come se essa nascesse dall’intreccio di un certo numero di cervelli pensanti rinchiusi in una stanza per un certo numero di settimane, come se le assemblee Costituenti americana o francese, italiana o tedesca non avessero avuto alle spalle lotte e rivoluzioni, guerre e resistenze, secoli o decenni di pratiche oppressive o liberatorie. È la storia il vero grembo in cui i concetti di “sovranità popolare”, “Parlamento”, “libertà di coscienza” si sono forgiati dando espressione e forma vivente alle speranze di libertà e giustizia, agli interessi materiali che anelavano a un riconoscimento.
In questo senso la via prevista dai Costituenti all’art. 138 per la revisione costituzionale non era solo il frutto della loro volontà di “irrigidire” la Carta, rendendo difficile e impervia l’opera di riforma, ma era espressione di una concezione della Costituzione che la vedeva come il frutto della storia e al tempo stesso come generatrice di storia, ossia di prassi comuni, di azioni che ripetendosi nel tempo davano vita a quella Costituzione vivente che è non solo il testo scritto, ma appunto l’insieme di norma e pratica, di dottrina e interpretazione, di giurisprudenza e revisione, e dunque come ogni realtà vivente, realtà che non è fatta una volta per tutte, ma che “si fa” nella storia e dunque si modifica per gradi, a piccoli passi, adattandosi alla mutevole realtà sociale, per via di emendamenti, di stratificazioni, di accumuli, di consuetudini. Perché le istituzioni – con Montesquieu – sono in stretta connessione con lo spirito di un popolo, della sua realtà sociale, dei suoi costumi, del suo rapporto con la natura, non sono solo il frutto di un mero ragionamento astratto, come vi fosse un unico cammino dell’umanità – tutto astratto e intellettuale – verso un’ipotetica civiltà del diritto. Nei paesi anglosassoni, dove il costituzionalismo ha radici profonde, non c’è questa frenesia “costituente”. Lì il diritto è sempre opera storica. Per noi è sempre creazione divina. Ed ogni piccolo legislatore si sente un Dio che dà le leggi al suo popolo guadagnandosi così l’immortalità. Già Platone ci aveva spiegato che nel desiderio di dare una costituzione alla propria città si annida un desiderio di superare la morte. Per questo sempre ammantiamo – Rousseau lo aveva ben spiegato – di attributi divini, “sovrumani” il legislatore e lo avvolgiamo di un’aura mitica sottraendolo alla storia. In una bella pagina della storia costituzionale italiana, Rosmini, introducendo la sua proposta di Costituzione nel 1848, critica i Francesi che, concependo la politica come opera di un’astratta ragione calcolatrice, vedevano il sorgere della Costituzione come un fenomeno simile a quello della nascita di Minerva, che esce bell’e fatta dalla testa di Giove. Scanso poi modificarla a distanza di due o tre anni in un continuo revisionismo costituzionale. In ciò diversi dagli inglesi e dagli americani che procedevano per accumuli, stratificazioni, emendamenti. In loro la Costituzione rimaneva sempre il frutto dell’accumulo delle sofferenze e delle lotte, il lento prender forma della vita individuale e collettiva nel tempo.
La possibilità dunque di una revisione della Costituzione non deve scandalizzare. Al contrario: è la testimonianza della sua natura storica, del suo essere democratica e dunque aperta a forme nuove di convivenza e a interpretazioni nuove del vivere sociale. Come è stato detto, il processo di revisione si oppone alla tirannia intergenerazionale: al rischio dell’imposizione perpetua di una determinata forma.
Ma se la revisione è possibile, essa dev’essere guidata da alcuni criteri.
Il primo di questi è quell’atteggiamento che all’inizio del ’900 si definiva “pudore costituzionale”, espressione che non era solo un lascito culturale dell’età vittoriana, ma esprimeva il profondo rispetto che doveva animare chi si accostava nelle azioni e nelle parole alla Costituzione, quasi dotata di un’aura sacrale. La ripresa di un po’ di quel pudore, di quella radicale umiltà che accompagnò i costituenti nel secondo dopoguerra non dovrebbe guastare e deve mettere in guardia da ogni tentativo di procedere a proposte frettolose (l’importanza del fattore “tempo”) e di riforma organica della costituzione anziché di revisione puntuale, su singole materie omogenee, passate al vaglio di organi diversi, attraverso una procedura in cui ognuno abbia diritto di esprimersi.
Il secondo di questi è la ricerca del più ampio consenso. La maggioranza qualificata prevista dall’art. 138 non esprime solo la necessità di un consenso numericamente più ampio della maggioranza semplice. Esprime invece la necessità che la Costituzione rimanga fedele alla sua natura pattizia e plurale. Approvata dalla stragrande maggioranza dei Costituenti (453 su 515 presenti) fu il frutto di uno straordinario incontro tra culture diverse e plurali unite dalla stessa tradizione umanistica (i dialoghi tra Basso, La Pira, Marchesi) . C’era non solo la necessità di tollerare il pluralismo, ma la volontà di onorarlo e di tenerlo in vita nella consapevolezza che la costituzione materiale dell’Italia è intrinsecamente plurale e la Costituzione è strumento di integrazione del diverso. Non vi possono essere maggioranze precostituite, né confusioni tra maggioranze di governo e maggioranze costituzionali. È superfluo ricordare che durante la sua vita l’Assemblea Costituente dovette votare la fiducia a più governi a composizione diversa: il secondo e terzo governo De Gasperi che vedeva la partecipazione di DC, PSIUP, PCI e il quarto governo De Gasperi dopo la rottura con le sinistre. Nonostante questa rottura sul piano del governo, l’Assemblea portò a termine i suoi lavori. Un chiaro esempio di distinzione tra maggioranza di governo e maggioranza parlamentare. Si ricerchi dunque fino all’ultimo il dialogo e l’intesa anche con le opposizioni, in un momento in cui le forze dell’attuale maggioranza devono essere consapevoli che una larga fetta del Paese non si sente rappresentata da loro ed è dentro il Parlamento nelle forze di opposizione ed è fuori nel Paese nel vasto astensionismo.
In questo guardare all’esterno del Parlamento ha senso la previsione di un ricorso al referendum, qualsiasi sia il quorum che ne accompagna l’eventuale approvazione. Si sa che in materia costituzionale il referendum ha avuto fin dall’inizio una duplice interpretazione: come elemento integratore e perfezionatore del processo legislativo (così Mortati, attento non solo alla democrazia rappresentativa ma anche alla diretta partecipazione popolare); dall’altro come elemento correttivo o ostativo di un processo politico-parlamentare in sé pienamente legittimo e perfetto, una volta rispettate le previsioni di legge (così la sentenza della Corte Costituzionale 2000). Si ponga grandissima attenzione sul punto, perché nel tanto invocare la maggiore democraticità del processo che mette sempre in campo la consultazione popolare, non si legittimi l’interpretazione di quanti ritengono strutturalmente imperfetta la deliberazione per via rappresentativa. Si concepisca piuttosto questa previsione come una misura contingente e provvisoria (come d’altronde dev’essere la stessa istituzione di un Comitato bicamerale al solo scopo di aggirare l’altrimenti insuperabile resistenza di ciascuna camera ai processi di riforma delle proprie prerogative) legata a una stagione di grave frattura tra le istituzioni e la coscienza civile. In questo riallacciarsi all’interpretazione originaria del Mortati, non si abbia paura di aprirsi a una concezione forte e sostanziale della democrazia che non indebolisca minimamente la democrazia rappresentativa, ma la riconduca all’umiltà del suo compito: rappresentare le attese e le speranze delle persone in carne ed ossa e renderle sovrane sulla vita loro e delle loro comunità.
Si eserciti dunque con umiltà il processo di revisione, su singoli punti e per tappe, nello sforzo della più ampia convergenza a ridurre come si è detto il numero dei parlamentari, a superare il bicameralismo perfetto, a dare spazio e forza alle autonomie locali in armonia con il quadro nazionale ed europeo, a consolidare la forma di una moderna ed efficiente democrazia parlamentare, di quella democrazia che mette al centro il Parlamento come luogo più alto della discussione e della deliberazione pubblica, secondo la famosa espressione di Cavour: “La peggiore delle Camere è preferibile alla migliore delle anticamere”. È questa centralità del Parlamento che in questo percorso dobbiamo onorare.