Rispettare la “distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro”.
Come in autostrada rispettiamo la distanza di sicurezza tra i veicoli per evitare uno scontro, una collisione, nel caso di una frenata improvvisa.
Ora la distanza è divenuta “interpersonale”.
A qualcuno pare insopportabile. Non c’è da stupirsi. Gli esseri umani amano il contatto. Si possono riprodurre soltanto unendosi. La sopravvivenza della specie – così è stato almeno per millenni, ora le tecnologie riproduttive consentono anche la fecondazione a distanza, ma distanti sono gli individui, perché il seme e l’ovulo alla fine devono pure incontrarsi e toccarsi – è legata all’incontro. E il desiderio dell’incontro, l’abbraccio, l’amplesso, l’unione, la fusione, stanno inscritti così profondamente nel nostro essere che in mille modi l’umanità ha espresso questo desiderio con miti e immagini bellissime: dal mito dell’androgino alla ricerca della sua metà perduta, alle visioni dei mistici in cui l’unione col divino è processo di fusione, in cui l’io e il tu scompaiono in un’unica realtà. Tutto in noi anela all’abbraccio.
Eppure noi siamo anche il frutto di un distacco. Di una fuoriuscita dal grembo materno, di un taglio del cordone ombelicale, di una separazione dal seno materno, di un’assunzione di un nome diverso, di una formazione di una diversa e separata identità, di un abbandono della casa paterna, di una distanza interpersonale. Senza questa distanza, nemmeno vi sarebbe l’io, quest’io acciaccato e petulante, ma pur sempre il “nostro” io desiderante tramite il quale siamo al mondo e ogni tanto godiamo di esserne parte.
Una vita senza incontri e senza fusioni non esiste. Ma nemmeno una vita umana senza distanze è possibile. Lo dimostra l’ammassamento coatto delle carceri, la massificazione della carne senza pudore là dove è impossibile vietare all’altro di toccarci e molestarci e dove l’abbraccio non è la gioia dell’incontro ma la violenza della sopraffazione. La massificazione priva di distanza è anche dissoluzione dell’io nella folla anonima, soffocamento. All’improvviso voglia di libertà. Solitudine. Montagna alta senza nessun essere umano in vista. Mare aperto dove solo acqua e cielo e sole. Quanto della nostra personalità si è costruito in questa libertà liberazione dall’ammassamento? In questo porre la distanza tra noi e gli altri?
Non la distanza verticale del tenere a distanza, la distanziazione sociale delle caste, la distanza del potente inarrivabile, la marginalizzazione, l’espulsione, l’indifferenza al soffrire e al morire dell’altro, ma la distanza orizzontale che istituisce la differenza e la libertà e quindi la possibilità di un incontro tra esseri liberi e pari.
Perfino la religione dalla più forte tensione fisica unitiva, quella che culmina nella comunione di corpo e sangue tra l’umano e il divino, salva attraverso una distanza e un abbandono sulla croce: il dio che salva è un dio abbandonato dagli uomini, un dio abbandonato da se stesso. C’è un abisso di distanza interpersonale tra le persone divine nel momento della croce. Ma quell’abbandono di dio, quel ritrarsi di dio, quel distanziarsi dall’altro, è la forma di un amore strano e paradossale. Il ritrarsi, il distanziarsi di dio apre lo spazio alla libertà dell’uomo. La distanza salva la libertà.
Così dobbiamo salvarci dagli altri ma dobbiamo anche salvare gli altri da noi. Distanti, diversi, liberi, l’incontro sarà non solo un bisogno, ma una scelta. E l’unione una gioia più profonda e un accesso a un più alto modo di essere.