Da quando è cominciata l’epidemia, Giorgio Agamben ci ha offerto la sua lettura della situazione in alcuni interventi apparsi sulla sua rubrica (l’ultimo si può leggere a https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-chiarimenti).
Naturalmente si tratta di interventi che hanno il sapore dell’occasionalità, da cui sarebbe ingiusto pretendere il rigore argomentativo di un saggio, ma il modo di procedere della sua riflessione appare caratterizzato da una serie di tali generalizzazioni che a chi concepisce la filosofia come l’arte della distinzione appare davvero inaccettabile. Ammucchiare ogni cosa in un tutto indistinto non aiuta a capire né ad agire.
1. Agamben scrive: “La prima cosa che l’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza è che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita. È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi.”
“La nostra società”, “gli italiani” sono francamente espressioni talmente generiche da non voler dire nulla. Non solo. Se prese alla lettera, sono false e ingiuste. Vi sono pezzi della nostra società e italiani che in questi giorni dimostrano di non subordinare tutto al mantenimento della loro nuda vita e di essere disposti a sacrificare praticamente tutto al pericolo di ammalarsi: mentre noi stiamo nelle nostre case, sacrificando un po’ della nostra libertà di movimento, medici e sanitari e volontari e molti altri pezzi di “società” e molti “italiani” rischiano la loro vita e talvolta la sacrificano per una visione della vita che va al di là della mera sopravvivenza.
Per cui quando Agamben si chiede: “Il nostro prossimo è stato cancellato ed è curioso che le chiese tacciano in proposito. Che cosa diventano i rapporti umani in un paese che si abitua a vivere in questo modo non si sa per quanto tempo? E che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?” si potrebbe dire che ciò che stiamo facendo è esattamente l’opposto di una società che ha come valore solo la (propria) sopravvivenza, dato che moltissime persone stanno cercando di dare il meglio di sé per garantire la sopravvivenza degli altri e non la propria.
2. Ma c’è un livello più profondo che emerge nella riflessione di Agamben, ossia il fatto che “la nostra società” abbia come valore supremo la “nuda vita” e non qualcosa di più “alto”. Qui però occorre distinguere di nuovo. In che cosa creda la nostra società, francamente non lo so, mi pare però che le nostre istituzioni abbiano – per mandato nostro – alcune obbligazioni nei confronti dei cittadini e tra queste la tutela del diritto alla vita che, nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, figura al primo posto. Certo ci sono valori più nobili del sopravvivere. Ma chi li stabilisce? L’autorità politica dovrebbe sacrificare alcune nude vite sull’altare di una “buona vita” che essa stessa dovrebbe definire? E chi avrebbe dato mandato allo Stato di stabilire qual è la “buona vita” a cui sacrificare la “nuda vita”? Mi pare un buon guadagno della politica moderna l’umiltà di occuparsi della vita lasciando la definizione della buona vita alla libertà dei suoi cittadini. Anche Boris Johnson si era incamminato all’inizio sulla via del “manteniamo il nostro stile di vita a tutti i costi e pazienza per coloro che morranno”. Ma non siamo nel Far West dove ognuno può farsi a distanza i fatti propri. Abbiamo scelto di vivere in città gomito a gomito e il mio vicino ha diritto di non venire contagiato da me. Oltre alla mia libertà vi è anche la sua libertà. E se la mia scala di valori prevede che la sopravvivenza non sia il valore supremo, che diritto ho di pensare che per lui la sua sopravvivenza sia un valore accessorio? E poi abbiamo scelto di dotarci di un servizio di sanità pubblica e non di un sistema in cui ognuno provvede da sé alla propria salute. Come pensare che un sistema di sanità pubblica – di cui continuiamo nei fatti a servirci – possa non porre dei limiti e delle regole all’arbitrio di ciascuno per poter funzionare per tutti?
3. Scrive ancora Agamben: “L’altra cosa, non meno inquietante della prima, che l’epidemia fa apparire con chiarezza è che lo stato di eccezione, a cui i governi ci hanno abituati da tempo, è veramente diventato la condizione normale. (…) Una società che vive in un perenne stato di emergenza non può essere una società libera. Noi di fatto viviamo in una società che ha sacrificato la libertà alle cosiddette ‘ragioni di sicurezza’ e si è condannata per questo a vivere in un perenne stato di paura e di insicurezza”. Nessuno sottovaluta il rischio dell’uso e dell’abuso dello stato di emergenza e il suo nesso con la sovranità e il ruolo della medicina pubblica nel disciplinamento sociale e tutto il resto. Ed è giusto richiamare l’attenzione e mantenere altissima la vigilanza sulla tutela della libertà negativa e positiva dei cittadini, sul ruolo del Parlamento e sull’importanza di mantenere il più ampio possibile lo spazio della critica e della partecipazione della società civile, specie di fronte all’immenso potere di vigilanza che le moderne tecnologie hanno e l’evidente abuso che ne viene fatto nei regimi autoritari. E si può perfettamente convenire sul fatto che “una società che vive in un perenne stato di emergenza non può essere una società libera”. Ma qui stiamo parlando di misure eccezionali legate a un’emergenza naturale come un terremoto o appunto un’epidemia e che non sono un artifizio di un governo tirannico e autoritario per l’oppressione dei suoi cittadini e la discriminazione di alcuni gruppi sociali. Dire che la società “ha sacrificato la libertà alle cosiddette ‘ragioni di sicurezza’” è di nuovo un’espressione generica e fumosa. Alcune libertà (come quella di movimento e altre libertà economiche e religiose) sono state pesantemente limitate: tuttavia, sono state limitate non da un’astratta sicurezza di Stato, ma dalla necessità di preservare la concreta libertà degli altri. Come tutte le misure politiche, anche quelle adottate sono misure doverosamente discutibili e criticabili. Ma proprio la discussione e la critica esigono lo sguardo sinottico della dialettica, capace di distinguere e al tempo stesso capace di pensare le contraddizioni e di trasformare la realtà.
È l’immensa delicatezza di questo bilanciamento tra i beni e le libertà in gioco che richiede un supplemento di fatica nel guardare all’insieme e nel chinarsi su ogni singolo provvedimento, discutendone la conformità rispetto ai diritti fondamentali di tutti, la ragionevolezza, l’efficacia, guardando alle diverse situazioni di vita, a chi è libero, a chi è in carcere, ai lavoratori dipendenti e ai lavoratori autonomi, ai giovani e agli anziani, ai malati come ai sani, ai medici come a tutti gli altri operatori, alle città e ai centri più piccoli, alla dimensione nazionale come a quella internazionale.
Michele Nicoletti