L’Europa difficile (pubblicato sul mensile IL MARGINE – aprile 2016)
La situazione attuale che l’Europa deve fronteggiare è forse, sotto il profilo politico, la più difficile nella storia recente.
Dopo il doppio disastro europeo delle due guerre mondiali, gli Stati europei hanno potuto gestire la loro crisi di Stati nazionali – ormai inadeguati ad essere i protagonisti della politica internazionale – sotto l’ombrello protettivo della NATO. Risolto così il problema della difesa comune, hanno potuto creare un mercato comune e una comune cornice giuridico-istituzionale fatta di istanze di tutela dei diritti umani e di governance comune più o meno riuscita. Così hanno gestito la loro perdita di potere nel mondo, accentuato dai processi di decolonizzazione, mantenendo l’illusione di essere ancora Stati sovrani e al tempo stesso hanno potuto intestarsi il merito di aver creato l’Europa, ossia una comunità politica sovranazionale dotata di successo.
In effetti, fino a questo momento, la storia del processo di unificazione europea è stata una storia di successi. La più antica istituzione unitaria europea, il Consiglio d’Europa, che ha tra i suoi pilastri i diritti umani tutelati dalla Corte Europea, la democrazia e lo Stato di diritto, raccoglie oggi 47 Paesi e più di 800 milioni di cittadini. Dal nucleo iniziale dei Paesi fondatori che avevano raccolto l’appello degli europeisti lanciato nel congresso dell’Aja del 1948 la sua storia è stata quella di un progressivo allargamento che, dopo il crollo del muro di Berlino, ha visto addirittura ricomporsi l’unità della casa comune europea superando le sanguinose divisioni del ‘900 tra Est e Ovest. Oggi però questa grande casa europea conosce drammatiche difficoltà: conflitti al suo interno tra Russia e Ucraina, Armenia e Azeirbagian; emergenza di tendenze autoritarie in Turchia, Ungheria, Polonia che mettono in discussione libertà di stampa, indipendenza della magistratura, diritti delle minoranze; incapacità e insensibilità di fronte alla più grande tragedia umanitaria, quella dei migranti forzati e dei profughi, che dopo essere stati problematicamente accolti ora vengono respinti da nuovi muri e fili spinati o usati come arma minacciosa nei negoziati tra gli Stati. Sul suo fronte anche la storia dell’Unione Europea è stata una storia di successi: da Comunità Economica si è allargata a comunità politica con proprie istituzioni anche elette dai cittadini e capace, in un certo numero di ambiti, di politiche comuni. Una realtà prospera a cui hanno guardato sempre più Paesi nella speranza di potervi entrare. Questa fase di ininterrotti allargamenti e unificazioni dell’Europa – comunque intesa – conosce ora una battuta di arresto.
I conflitti politici e militari al suo interno non sono solo conflitti tra Stati all’interno di un’unica grande alleanza militare capeggiata dalla NATO, ma potrebbero trasformarsi in tensioni tra alleanze militari diverse che rivendicano la loro indipendenza e la loro autonomia. La Russia – che parte dell’Occidente ha voluto rinchiusa nei propri confini dopo la fine dell’Unione Sovietica e non più considerata “grande potenza” ma quasi satellite dell’Occidente – è tornata, anche per far fronte a difficoltà politiche ed economiche interne, a rivendicare un proprio ruolo di grande potenza e a ricostruire una propria sfera di influenza nell’Europa Orientale, nel Caucaso, in Medio Oriente. In Oriente la crisi degli Stati nazionali – spesso creati artificialmente dalle potenze coloniali – ha riproposto il protagonismo dei vecchi imperi: l’Impero Ottomano, l’Impero Persiano, l’Arabia e l’Egitto si muovono ormai secondo strategie antichissime che travolgono i fragili confini degli Stati anche per rispondere alla logica transnazionale dei movimenti terroristici (magari dagli stessi Imperi alimentati). Così anche la Russia è tornata ad esercitare una sua politica estera di stampo imperiale e a presidiare le eterne questioni: confronto con la Cina, controllo dell’area caucasica, sbocco sul Mediterraneo, presenza in Medio Oriente, presenza nei Balcani, controllo dell’Europa orientale. La Turchia gioca tutte le sue carte per rispolverare l’antica grandezza ottomana: alleato della NATO contro la Russia, partner dell’Europa e della Germania in particolare, protagonista della lotta tra sciiti e sunniti sullo scacchiere medio-orientale.
Di fronte a questa ripresa vigorosa di politiche imperiali ai suoi confini e di fronte a un progressivo disimpegno statunitense dall’orizzonte europeo e mediterraneo, l’Europa è arrivata al suo vero appuntamento con la storia in modo debole e diviso. Paradossalmente debole e diviso, perché mai l’Europa era stata così forte economicamente nel suo insieme e mai così unita rispetto alle sue divisioni secolari. Ma è uscita malconcia dalla crisi economica, con prestazioni non brillanti – nel suo insieme – e, soprattutto, senza una strategia comune: come era prevedibile i paesi più forti hanno ripreso a crescere senza trascinare con sé i Paesi deboli, ma accentuando le dinamiche di competizione interna; la governance comune non è decollata, la Commissione ha perso terreno rispetto al Consiglio ed è tornato a contare solo il tavolo dei capi di governo. Così alla competizione economica si è sommata la competizione politica.
Insomma nel momento in cui l’Europa avrebbe dovuto presentarsi al mondo come protagonista accanto agli altri grandi Imperi, si è messa a balbettare e a litigare al proprio interno. Eppure dovrebbe sapere – conosce i numeri che i suoi centri studi continuano a sfornarle – che nessun Paese europeo da solo, nemmeno la fortissima Germania, nei prossimi anni potrà sedere al tavolo dei Grandi della terra se non mettendosi assieme ad altri.
Nel momento del massimo bisogno di decisione l’Europa sembra il nuovo Amleto. L’immagine non è nuova, purtroppo. Alla fine della Prima Guerra mondiale, nel 1919, già Paul Valery aveva parlato di un Amleto europeo: «Adesso su di un’immensa terrazza di Elsinore, che va da Basilea a Colonia, si spinge fino alle sabbie di Newport, alle paludi della Somme, ai calcari della Champagne e ai graniti dell’Alsazia, l’Amleto europeo contempla milioni di spettri». Quella drammatica indecisione aprì la porta ai demoni nazionalistici, quegli stessi che oggi tornano a ripopolare l’Europa orientale e purtroppo anche occidentale.
Nella crisi dell’europeismo e dell’occidentalismo, il nazionalismo è un sicuro rifugio psicologico per le anime incerte. E le anime europee sono incerte perché le loro fedi si sono incrinate: la fede economica in un benessere sempre crescente per tutti, la fede nella propria forza espansiva e nella propria capacità di attrazione (come mai i Britannici se ne vogliono uscire nonostante le raccomandazioni di tutti gli economisti?). Comincia a dubitare di se stessa. Anche i suoi confini sono incerti. Non sa più dove sono a est e a sud. Non sa più chi li sorveglia: gli Stati nazionali, Frontex o chi altro ancora? Non sa più come si gestiscono i confini: dopo tanti abbattimenti di frontiere interne al primo scricchiolio, prende paura e subito rimette in piedi l’antico armamentario di muri e cavalli di Frisia e tutto il resto. Poco importa se fuori restano nel fango donne e bambini in fuga dalle guerre e i suoi nemici terroristi si annidano nei suoi quartieri interni a pochi metri dai palazzi di Bruxelles, cresciuti a contatto con tutte quelle belle vetrate che non sono riuscite a trasmettere loro un po’ di fede nella forza della ragione, del rispetto dell’altro e della nonviolenza. Così nell’incertezza si ripiega sul Blut und Boden, la madre patria, la natio, insomma una bella regressione securizzante in un presunto grembo materno.
Infatti i progressisti e il progressismo in epoca di regressioni non stanno molto bene. Sono minoranza quasi dappertutto in Europa. E abbastanza all’opposizione. Il cristianesimo, nonostante il forte messaggio di papa Francesco, non sembra – ancora una volta – riuscire ad arginare la regressione sciovinista. E lo stesso europeismo a sinistra comincia a perdere pezzi: se l’Europa è l’Europa delle destre, chi ce lo fa fare di darle più forza? Di abbandonare lo Stato nazionale con le sue belle garanzie e le sue belle politiche di welfare? Così anche buona parte delle sinistre europee ripiega la bandiera azzurra con le stelle.
Eppure – a parte i politici troppo proni di fronte agli umori elettorali e i partiti di destra – tutti sanno che lo Stato nazionale non solo non regge più ma non c’è più nella dinamica della vita materiale. La vecchia talpa ha scavato. E ora che le sfide sociali ed economiche, militari e umanitarie, sono internazionali, è davvero regressione pensare di rispondervi con politiche nazionali. Oppure è funzionale a chi vuole la politica debole rispetto al dispiegarsi degli interessi in campo. E allora i democratici dovrebbero ridare fiato all’ideale europeista e riempirlo di battaglie di più democrazia politica e sociale. Non nella forma statolatrica del grande Leviatano, ma nella bella forma federalista, basata sul principio di sussidiarietà, su cornici di diritti comuni e su tutele sovranazionali, su processi democratici di governance plurali e su una vera unità sui capisaldi di ogni comunità politica: difesa, primato dell’interesse economico comune, giurisdizione basata su idea condivisa di giustizia.
C’è già molto di tutto questo. Non si parte da zero. Ma l’Amleto deve scuotersi prima che sul terreno europeo prenda corpo l’idea di dare vita anziché all’Unione Europea a un nuovo Impero Carolingio. Non sarebbe una buona idea. Il Regno Unito tornato a fare la nave in mezzo all’Oceano. L’Europa orientale e i Balcani tornati ad essere luogo di tensione tra Russia-Germania-Turchia. Il Mediterraneo zona di dominazione straniera o zona grigia di scorribande di antiche e nuove bande di pirati e di disperati in cerca di salvezza.
L’Italia ha un interesse assoluto a che il superamento dello Stato nazionale si compia nell’Unione Europea, in un’Unione democratica, fatta di “pari” e non luogo di nuove asimmetrie. Dunque l’Italia scuota l’Amleto. Lo scuota la generazione Erasmus. Lo scuotano le associazioni umanitarie che soccorrono i profughi e sanno che senza un’Europa unita ci saranno sempre muri e fili spinati e fango e morti in mare. Lo scuotano i buoni operatori economici che sanno quanto costano le frontiere al Brennero mentre in quello stesso luogo si scava – paradosso dei paradossi – il tunnel più costoso d’Europa. Lo scuotano i partiti che devono rafforzare i loro rapporti europei e smettere di contemplarsi l’ombelico. Lo scuotano gli intellettuali che senza Europa e libertà di stampa e di parola vedono immalinconire popoli e culture intere in preda ai regimi autoritari del momento. Lo scuotano le parole che i padri dell’Europa hanno scritto nel 1948: «L’Europa è minacciata, l’Europa è divisa e il pericolo più grande viene dalle sue divisioni». Una generazione che aveva vissuto i pericoli della guerra e delle persecuzioni vedeva il pericolo più grande nelle divisioni del continente europeo. E proseguiva: «La dignità umana è la conquista più bella dell’Europa, la libertà è la sua vera forza». Non dobbiamo avere paura di ripetere queste parole ogni qualvolta vediamo qualcuno cercare la “forza” altrove: la dignità umana è la conquista più bella dell’Europa, la libertà è la sua vera forza.