Alcune riflessioni sul Gruppo parlamentare
A due anni dall’inizio della legislatura sono emerse con chiarezza alcune questioni che hanno bisogno di una approfondita discussione e di una rigorosa messa a punto, considerate le rilevantissime responsabilità che il nostro Gruppo ha nel prosieguo della legislatura. Non solo. La riforma della legge elettorale e del sistema bicamerale esigono al contempo riflessioni e decisioni sulla natura del Gruppo parlamentare, sui suoi rapporti con il Governo, con il Partito e con il Parlamento in generale, per impostare su solide basi istituzionali, regolamentari e comportamentali lo scenario politico futuro.
Qualsiasi cosa si possa pensare della legge elettorale e della riforma costituzionale a proposito del cambiamento della forma di governo, è del tutto evidente che rimarremo dentro una forma di democrazia parlamentare in cui la vita e la morte del Governo riposano sulla fiducia della sua maggioranza parlamentare. Con una maggioranza di 340, anche in futuro sarà sufficiente che 30 deputati decidano di votare la sfiducia, per provocare una crisi di governo: a nulla sarà valso aver adottato una legge elettorale con premio di maggioranza e tolto al Senato il voto di fiducia, se non avremo definito con chiarezza i confini della responsabilità del singolo parlamentare. Tanto più in uno scenario in cui 240 parlamentari saranno eletti con il voto di preferenza, riterranno di essere entrati in Parlamento sulla base di meriti esclusivamente personali e di dover rispondere al loro elettorato di riferimento come a un tribunale divino interpretando l’art. 67 sempre e solo come assenza di vincolo di mandato nei confronti del Partito di riferimento e non anche nei confronti della propria circoscrizione elettorale, come invece era chiaramente in origine.
La definizione chiara dei confini della responsabilità parlamentare dovrà valere anche nei confronti di quanti – magari provenendo da altre formazioni politiche – decideremo di accogliere nella nostra lista elettorale. Per questo una rigorosa messa a punto di questi temi generali in questa legislatura è essenziale. Così svolgeremo un servizio autentico nei confronti di quanti verranno dopo di noi. Senza alcuna pretesa di esaurire le questioni né, tanto meno, di approfondirle come meritano, mi permetto di accennarne alcune, nella speranza che si avvii una discussione su di esse.
Rapporti tra Gruppo e Governo
Si tratta qui del delicatissimo rapporto tra maggioranza parlamentare e Governo che si esprime nella sua forma più forte nel voto di fiducia. In una democrazia parlamentare funzionante il rapporto tra maggioranza parlamentare e Governo non può che essere organico. Mentre in una democrazia presidenziale il Governo deriva la sua legittimità dall’elettorato, nel caso di una democrazia parlamentare il Governo dipende invece dalla sua maggioranza parlamentare di cui dovrebbe essere – per citare la famosa espressione di Leopoldo Elia – il “Comitato direttivo”. Questa prospettiva viene rafforzata dalla prospettiva che sta alla base della previsione statutaria del PD, presente alla sua nascita e confermata in occasione dell’ultimo congresso, per cui la carica di segretario del PD e di candidato o di premier coincidono. È evidente in questa previsione la volontà di affermare l’unità della direzione politica, posta in capo ai cittadini i quali, con il duplice passaggio di primarie e poi elezioni, la esprimono attraverso l’elezione del segretario/direzione e premier/gruppo parlamentare.
A mio parere, sotto il profilo politico-istituzionale, si può certo concepire il rapporto tra il Governo e la sua maggioranza in modo dialettico, ma questa dialettica non può spingersi fino a una divaricazione sul voto che decide la vita o la morte di un Governo, se non come voto di singoli per gravi e motivate ragioni di coscienza scaturenti da obbligazioni religiose o morali di carattere assoluto, non da valutazioni di carattere politico. Al di fuori di valutazioni etiche o religiose, la divaricazione diviene “politica” e la negazione di un voto di fiducia assume inevitabilmente il senso di una decisione finale: questo Governo non merita di continuare a vivere. Per dirla con Nino Andreatta: «Credo che nel buon funzionamento di un regime parlamentare nessuno metta in dubbio che i gruppi parlamentari della maggioranza non arrivino, in casi estremi, alla sfiducia del premier (…) Se invece attraverso questi meccanismi si dovesse tendere a separare l’esecutivo dal parlamento, finiremmo con l’avere un esecutivo debole; infatti è soltanto questa capacità di quasi identità tra esecutivo e parlamento che permette di fare funzionare una democrazia parlamentare e di renderla un regime forte».
Si può certamente sollevare il tema dell’opportunità della richiesta di un voto di fiducia su questa o quella materia, ma una volta che il Governo la abbia posta all’interno delle prerogative che la Costituzione e la legge gli riconosce, il sollevare questioni di “legittimità” significa mettere in discussione la legittimità del Governo stesso e conseguentemente assumersi la responsabilità – per quanto in potere dei non votanti – di farlo cadere. Nell’ultimo caso concreto – al di là delle legittime valutazioni sull’opportunità o meno di porre la fiducia sulla legge elettorale – non si può non rilevare che lasciando al legislatore ordinario la materia elettorale, il costituente consegnava implicitamente tale materia alla dinamica delle decisioni “politiche” ossia alla maggioranza parlamentare, allo stesso modo in cui sceglieva di lasciare altre materie – pur rilevantissime dal punto di vista costituzionale quale ad esempio la legge sulla cittadinanza – alla disciplina delle leggi ordinarie e dunque della maggioranza del momento.
Se da un lato si pone il tema di ciò che il Governo può chiedere alla sua maggioranza, dall’altra occorre definire ciò che una maggioranza può chiedere al suo Governo e in quali forme, quale possa essere il suo protagonismo nel processo legislativo, quale la sua modalità di assumere linee e decisioni vincolanti per tutta la coalizione, per il Governo e per i parlamentari stessi, quale sia lo spazio dei singoli, dei partiti, del lavoro in commissione e del lavoro in aula.
Come si vede il tema del rapporto Gruppo-Governo è squisitamente politico-istituzionale, prima che disciplinare, e merita un approfondimento serio e sereno del tema in sé, non tanto per la rottura che abbiamo consumato – e che mi auguro possa quanto prima venire positivamente ricomposta -, ma per il futuro di questa e delle prossime legislature. Non ne hanno bisogno solo i parlamentari alla prima legislatura, ma tutto il gruppo, posto che ci troviamo di fronte a una importante e delicata transizione nella vita del nostro Parlamento e l’antica grammatica istituzionale appare indebolita su ogni fronte e la nuova grammatica istituzionale ha da essere scritta. Ma sono anche i nostri comportamenti a scriverla, posto che le istituzioni sono modellate non solo dalle regole scritte, ma anche dalle pratiche dei loro attori.
Penso per questo che sia essenziale un chiarimento politico-istituzionale sul punto.
Rapporti tra Gruppo e Partito
Un secondo livello di questioni riguarda il rapporto tra Gruppo e Partito.
Vedo a questo proposito due questioni rilevanti.
1. La prima riguarda la definizione della linea politica e le procedure attraverso le quali si assumono le decisioni politiche. Mentre è abbastanza chiara la procedura sulle grandi questioni (discussione e decisione in Direzione Nazionale, discussione e decisione nel Gruppo) – anche se rimane problematico il discutere e decidere in 300 in poco tempo su questioni di grande complessità -, assai più indefinito è come si definisce la linea politica su questioni specifiche. Il partito e il gruppo offrono spesso occasioni di approfondimento e di discussione, ma quando poi si arriva al momento della decisione non è affatto chiaro chi sono gli attori responsabili e quali sono le procedure. Esistono i responsabili della segreteria, esistono i membri e i capigruppo in commissione, esistono i membri del Governo, esistono naturalmente gli alleati con cui fare i conti, esistono poi le parti sociali o le lobbies. Il processo decisionale – spesso quello che veramente incide sulla vita della società – sembra affidato al frutto di una serie di intuizioni personali di esperti, di contrattazioni con chi preme di più, eccetera, all’interno del quale non è facile individuare una chiara imputabilità politica a questo o a quel soggetto, né un chiaro procedimento all’interno del quale ogni parlamentare sa di poter giocare il suo piccolo frammento di responsabilità. Una più chiara definizione dei luoghi e delle procedure attraverso un sistematico coinvolgimento degli attori gioverebbe molto alla chiarezza politica e alla qualità del processo legislativo.
2. La seconda questione è strettamente connessa alla prima e riguarda la valorizzazione delle competenze. In ogni processo decisionale vi sono aspetti tecnici che richiedono studio e approfondimento e aspetti politici che richiedono visione generale. Il lavoro di commissione e d’aula dovrebbe consentire questa duplice attenzione, così come la collaborazione con il Partito dovrebbe permettere un rapporto costante con tecnici di area e parti sociali. È essenziale però che nel gruppo le competenze vengano pienamente valorizzate e organizzate. Personalmente ho conosciuto nel gruppo colleghe e colleghi straordinari che lavorano con grandissima competenza e serietà. Penso però che queste competenze potrebbero essere ancor più valorizzate se sapessimo relativizzare il peso dell’appartenenza o dell’affiliazione a questa o a quell’area. È questa una malattia cronica del reclutamento e del funzionamento della classe dirigente italiana – dentro e fuori la politica – che la rende drammaticamente debole rispetto ai suoi equivalenti europei e la rende sostanzialmente non attraente per molte persone valenti e motivate. Pensare che da un tale frullatore di congressi mai finiti, di ricerche di legittime visibilità personali, di eterni posizionamenti, possa nascere una classe dirigente capace di sorreggere le immani sfide del presente mi pare davvero illusorio. Le aree dovrebbero esprimere posizioni di pensiero e possono anche costituire un utile principio organizzativo nei gruppi numerosi e plurali, ma rischiano anche di divenire delle gabbie, soprattutto all’interno di uno stesso partito, quando il rispetto del loro equilibrio assurge a principio supremo. Dobbiamo – soprattutto per chi verrà dopo di noi – creare all’interno del gruppo un meccanismo di valorizzazione delle competenze, di lavoro comune, di fiducia reciproca sottratto alla tirannide della logica delle affiliazioni e un metodo di lavoro basato sullo studio rigoroso dei problemi, sull’ascolto attento ma disincantato delle parti sociali, sulla comparazione internazionale che consenta a tutti di far bene e di crescere in autorevolezza. Altrimenti è inevitabile che la politica travolta da un continuo frullatore venga considerata inaffidabile e che, nel processo decisionale, più dei rappresentanti del popolo contino i funzionari, stabili e competenti, e le parti sociali capaci di lobbysmo.
Anche a questo fine una più chiara divisione del lavoro con l’individuazione di precise responsabilità di settore e uno sforzo di valorizzazione di tutti i membri nelle Commissioni e oltre le Commissioni (molte colleghe e colleghi lavorano in una Commissione ma hanno preziose competenze in altri settori) potrebbero migliorare la qualità del nostro lavoro.
Rapporti tra Gruppo e Camera
Esiste infine un ruolo del Gruppo nei confronti dell’intera Camera dei Deputati. Siamo il gruppo più numeroso e, pur in un contesto difficile, su di noi grava la maggiore responsabilità dell’intera istituzione.
1. Programmazione dei lavori. Chiunque dia un’occhiata ai siti del Parlamento britannico, tedesco, francese, spagnolo, rimane colpito dalla organizzazione dei lavori. Calendari annuali ben definiti, agende settimanali spesso dettagliate al minuto, tempi democratici ma sobri di discussione, eccetera. Sono ben consapevole della difficoltà di cambiare i costumi, così come del fatto che i lavori vengono spesso modificati sulla base delle iniziative governative, ma rimango convinto che i regolamenti consentano di fare assai meglio per onorare lo spirito e la lettera dell’art. 23 comma 1 («La Camera organizza i propri lavori secondo il metodo della programmazione») del Regolamento della Camera.
Penso che anche su questo piano il nostro Gruppo dovrebbe svolgere un ruolo trainante per adeguarci a ciò che avviene negli altri Parlamenti.
2. Modifica del Regolamento. La modifica del Regolamento per molti aspetti è legata alla riforma costituzionale in corso e risente chiaramente del posizionamento dei Gruppi politici sul tema. Tuttavia a nessuno sfugge come sia assolutamente necessario premere per una sua attuazione. Ciò ha a che fare con punti di rilievo come il procedimento legislativo nel futuro ordinamento, ma anche con la formazione dei Gruppi parlamentari. Questo secondo punto non è affrontato dalle proposte di modifica, ma è di grandissima importanza, considerato il persistente trasformismo e nomadismo parlamentare della politica italiana, e il Regolamento dovrebbe in tutti i modi disincentivare la formazione di gruppi parlamentari che non si sono presentati alle elezioni. Ma esistono molti altri punti toccati dalle proposte di modifica che potrebbero decisamente migliorare la qualità del nostro lavoro. Dobbiamo spingere per una discussione e un’approvazione di tali proposte perché da noi dipende il processo di europeizzazione (nel senso di adeguamento ai migliori standard europei) delle nostre istituzioni.
3. Status del parlamentare. Vi sono poi le numerose questioni legate allo status del parlamentare che sono oggetto di continua polemica politica. Su questa materia (trattamento economico, diritti e doveri del parlamentare, immunità eccetera) siamo costantemente incalzati dall’opinione pubblica. Non si tratta di inseguire questa o quella deriva populista, anche perché ci è ben chiaro che nessuna decisione su questo terreno è mai sufficiente, né si vuole indebolire la dignità e il ruolo delle istituzioni rappresentative. Ma, anche in questo settore, occorre ritrovare la necessaria sobrietà, la solidarietà con i cittadini in difficoltà e l’omogeneità rispetto ai nostri colleghi europei. Tra le misure che potremmo adottare rientra, ad esempio, quella proposta sottoscritta da più di 170 deputati relativa all’adozione di un Codice di condotta che, pur con i suoi limiti, potrebbe aumentare il tasso di trasparenza e accountability della classe politica.
Su queste e altre questioni mi auguro che si possa avviare tra noi un serio e sereno confronto.