Il voto segreto è spesso associato a congiure e tradimenti, ma forse sarebbe bene riscattarne il senso profondo, quello di essere il luogo in cui il supremo giudizio di coscienza può esprimersi nella forma umanamente più libera, più sottratta a pressioni e costrizioni
Nel caso in cui questo parlamento fosse chiamato a eleggere il nuovo presidente della repubblica, sarebbe forse opportuna qualche riflessione preparatoria. Ciò, naturalmente, non sarebbe sufficiente a evitare del tutto lo scatenarsi unico di passioni, ambizioni, risentimenti, intrighi, manovre, eccetera, che ogni elezione presidenziale porta con sé, ma potrebbe elevare il grado di consapevolezza politica degli attori in gioco.
Un siffatto iter potrebbe articolarsi secondo le seguenti tappe.
a) Una prima riflessione dovrebbe per forza riguardare la natura e il ruolo della presidenza della repubblica nel nostro ordinamento costituzionale. Per banale che possa essere, un accurato ripasso del titolo II della parte seconda della Costituzione non farebbe male, così ogni volta che un grande elettore verga sulla scheda il nome del o della candidata dovrebbe immediatamente associare a quel nome le delicatissime funzioni che un presidente deve svolgere in pace e in guerra, nella vita ordinaria come nella crisi e nello stato d’eccezione.
b) Una seconda meditazione dovrebbe riguardare la procedura, ossia la natura e il senso del voto a scrutinio segreto. Esplicitamente previsti dalla Costituzione sono soltanto due voti segreti: quello del cittadino quando elegge i propri rappresentanti, quello del grande elettore quando elegge il presidente della repubblica. Anche a causa degli intrighi di cui sopra, il voto segreto è spesso associato a congiure e tradimenti, ma forse sarebbe bene riscattarne il senso profondo, quello di essere il luogo in cui il supremo giudizio di coscienza può esprimersi nella forma umanamente più libera, più sottratta a pressioni e costrizioni. I costituenti conoscevano assai bene – lo si sa dall’antichità – quali meschinità possano nascondersi dietro la segretezza del voto e tuttavia sapevano – spesso sulla loro pelle – quanto pesante potesse essere il condizionamento di uno stato o di un partito o di una propaganda oppressiva e quanto prezioso fosse il dono della libertà della coscienza quando essa si trova di fronte alle grandi scelte. Ognuno di noi attribuisce agli altri i mali peggiori della società, eppure quante scelte sbagliate sono direttamente imputabili a noi per via di giudizi frettolosi o superficiali o formulati sotto questa o quella pressione?
Scegliere se bocciare o no uno studente, scegliere questo o quel candidato in una commissione di concorso, scegliere se affidare a questa o quella ditta un appalto e così via sono piccole grandi scelte che incidono sulla vita delle persone e che vanno prese in scienza e coscienza, come si dice, prendendosi l’anima tra le mani e cercando di far bene. Certo la libertà va coniugata con la responsabilità e con lo sforzo della convergenza (1000 voti affidati al mero arbitrio individuale non produrrebbero un presidente nemmeno dopo 100 anni) ma proprio la natura costituzionalmente libera di questo voto dovrebbe suggerire ai vari registi non di ricorrere alla retorica del paternalismo, ma di promuovere un dialogo aperto tra coscienze adulte, che non ci fu nel 2013.
Insomma andrebbe onorata la natura dei parlamentari come “pari” sovrani – verrebbe da dire, se si avesse ancora il senso della dignità parlamentare che avevano le Cortes di Aragona quando giuravano fedeltà al nuovo re e il loro speaker accoglieva il monarca dicendo: «Noi, che valiamo come voi e che possiamo più di voi, vi eleggiamo nostro re a condizione che voi rispettiate le nostre leggi; se no, no» – senza commettere l’errore di ridurli a torbidi mestatori interessati alla loro sopravvivenza o a pura massa di manovra per i capipartito o i capicorrente. La coscienza libera converge e di buon grado, quando si sente rispettata e ascoltata e quando si trova prospettata con buone ragioni la miglior soluzione possibile.
Una terza riflessione dovrebbe riguardare le trasformazioni storiche che hanno interessato la funzione del presidente della repubblica e dunque non solo la lettera della Costituzione ma anche la prassi e la storia concreta che rende vive le istituzioni e le fa capaci di servire alla comunità. La lettura degli articoli dovrebbe quindi nutrirsi di una ricognizione storica capace di illustrare il modo concreto in cui personalità diverse con caratteri diversi e modalità diverse hanno svolto quella funzione di equilibrio del sistema. Ricognizione che lascerebbe aperta, da un lato, la possibilità al/la nuovo/a presidente di interpretare in modo anche originale la funzione, dall’altro, il dovere di non depauperare il patrimonio straordinario di credibilità che l’ufficio ha accumulato nel corso degli anni.
Si pensi, per restare alle ultime due presidenze, a quanto la credibilità internazionale dei presidenti Ciampi e Napolitano abbia giocato in positivo come fattore di accreditamento e garanzia del sistema Italia non solo all’interno, ma soprattutto all’esterno.
Infine non dovrebbe mancare un’analisi storica che ripercorra la serie delle elezioni presidenziali non indugiando sugli aspetti di costume, ma cogliendo da essa gli elementi strutturali e propriamente politici. Lo si faccia a partire dalla prima, quella in cui un De Gasperi, presidente del consiglio, pochi giorni dopo aver vinto le elezioni del 1948 con la più alta percentuale conseguita da un partito nella storia della repubblica (il 48,51 per cento) dovette accettare di veder tramontare la candidatura del proprio candidato, il conte Sforza, a favore di Luigi Einaudi. L’interpretazione più interessante di quell’evento si trova nel famoso articolo che Giuseppe Dossetti, uno dei protagonisti dell’elezione di Einaudi, scrisse su Cronache sociali del 15 maggio 1948 dal titolo «18 aprile e 11 maggio» e che forse bisognerebbe rileggere.
Ripercorrendo la prima elezione del presidente della repubblica, Dossetti ne evidenzia 7 punti: 1. «Una consolidazione delle nuove istituzioni repubblicane» (dato che il conte Sforza appariva legato alla monarchia). 2. «Un’opportuna rivendicazione delle prerogative del parlamento» (di fronte a una candidatura, quella di Sforza, caldeggiata dal governo).
3. «Una riaffermazione del principio della divisione dei poteri tra governo e parlamento» che Dossetti così definisce: «Salutare, per il sano funzionamento delle nuove istituzioni repubblicane, per il consolidarsi del costume democratico, per una garanzia e uno stimolo al governo e a tutti per la massima correttezza nell’esercizio del potere esecutivo, per la difesa dello stesso partito di maggioranza contro le tentazioni (e più ancora contro le malevoli interpretazioni e supposizioni altrui) dello spirito di predominio».
4. «Una prova di consonanza tra parlamento e opinione pubblica» (perché l’elezione di Einaudi trovava un più forte riscontro nel sentire comune). 5. «Una prima soddisfazione data alle aspirazioni rinnovatrici» (perché Einaudi non aveva avuto nessuna significativa responsabilità politica nemmeno nell’Italia prefascista e avrebbe salutato la sua elezione con le parole “la Costituzione che l’Italia si è ora data è una sfida alla concezione pessimistica dell’avvenire”).
6. «Un’applicazione del nuovo senso democratico alla valutazione della nostra politica estera» (non perché il Parlamento dissentisse dai contenuti della politica estera del conte Sforza, ministro degli Esteri, leale agli impegni assunti dall’Italia con gli alleati, ma perché non ne aveva apprezzato l’impulsività e quasi la voluttà con cui aveva assunto determinati impegni).
7. «Infine una prova dell’efficacia che le soluzioni giuste chiare ed oneste finiscono con l’avere anche nei confronti dell’opposizione» (perché i socialcomunisti avevano accolto l’elezione di Einaudi con “dignitoso sentimento di cavalleria” e la sua proclamazione era avvenuta in un’atmosfera di “alta serenità”.
E così chiudeva Dossetti: «Tale serenità sta a provare che se il governo, i gruppi che lo sostengono, e soprattutto il partito della maggioranza, perseguiranno una linea di condotta ispirata a una grande senso di responsabilità, a una fedeltà rigorosa verso le aspirazioni del popolo e verso le norme del gioco democratico, potranno per lo meno togliere ogni fondata apparenza di pretesto alle resistenze, sia pure preconcette ed esasperate, degli avversari; e forse qualche volta riusciranno ad attrarre questi, in parlamento, sul terreno del dialogo democratico»).
Dunque il governo lasci fare al parlamento, i gruppi parlamentari tornino a fare politica, non si stanchino di discutere e usino bene dei loro regolamenti per arrivare a soluzioni interne condivise. E i parlamentari non usino del segreto per dare nuovamente la stura al “risentimento” – il vero demone nichilista di questa difficile stagione politica –, ma per farne il luogo in cui coniugare libertà e responsabilità.