Mentre si torna a discutere di contratti di lavoro e si deve mettere in atto ogni sforzo per creare nuove opportunità per le giovani generazioni, colpite, oggi come non mai, dalla piaga di una disoccupazione che raggiunge cifre drammatiche, non si dovrebbe dimenticare la grande svolta “umanistica” che il diritto novecentesco ha saputo imprimere ai rapporti di lavoro superando l’idea che il contratto di lavoro regoli lo scambio tra due cose (denaro in cambio di forza lavoro) e riconoscendo che in esso si gioca non solo l’”avere” ma l’”essere” delle persone, siano essi lavoratori o datori di lavoro.
A ricordarcelo è un denso e lucido saggio di Luca Nogler, sensibile alle questioni antropologiche tanto quanto attento alla comparazione europea, apparso sulla rivista «Europa e diritto privato» (4/2013) sotto il titolo (Ri)scoprire le radici giuslavoristiche del “nuovo” diritto civile. Nogler ricorda come la svolta umanistica del diritto del lavoro europeo sia riconducibile alla grande opera di Philipp Lotmar sul contratto di lavoro (Der Arbeitsvertrag, 1902). Nella introduzione a quest’opera si legge: «l’essenza del contratto di lavoro non consiste nel fatto che il lavoratore rinunci e trasferisca una parte del suo patrimonio, bensì che egli svolga un’attività di lavoro. Quest’ultimo (il lavoro) non è qualcosa di cui egli già dispone per l’avvenire al momento in cui accetta di lavorare, oppure che sia nella sua disponibilità al momento in cui esegue la promessa di lavorare; non si tratta di qualcosa che attenga all’avere della persona, il lavoro scaturisce piuttosto dall’essere». Si respirano, in questa prospettiva antropologica, le origini ebree del giurista tedesco e la sua passione civile, quella passione che lo aveva portato nel 1878 ad aderire al partito socialdemocratico, sacrificando così, a causa delle leggi antisocialiste della Germania di allora, la propria carriera accademica.
Con ciò, Lotmar superava la concezione del contratto di lavoro come cessione temporanea di un bene – ossia il corpo o le energie fisiche del lavoratore – , concepito quasi come un’entità dotata di un’autonomia dal lavoratore stesso, e affermava con forza l’unità inseparabile della persona (anima e corpo) e la natura di “rapporto tra persone” del rapporto lavorativo. Dunque rapporto tra “soggetti”, ossia realtà irriducibili a meri “oggetti”; dunque rapporto tra persone, titolari di una “dignità” e non solo di un “prezzo”, riecheggiando la lezione kantiana.
Questa “svolta umanistica” del diritto del lavoro trova la sua ricezione e rielaborazione in Italia nelle opere di un altro grande giurista come Luigi Mengoni, docente alla Cattolica e anch’egli protagonista, come è stato ampiamente riconosciuto da Federico Mancini e Gino Giugni, della storia del diritto del lavoro novecentesca. Nella sua critica al “neo-individualismo proprietario” Mengoni riprende con forza l’idea di Lotmar di una inseparabilità tra la persona e il suo corpo e dunque dell’impossibilità di concepire il rapporto di lavoro subordinato come una messa a disposizione da parte del lavoratore del proprio corpo nelle mani di un altro: «è sempre e solo il lavoratore che può utilizzare il proprio corpo». In questa prospettiva umanistica la relazione tra lavoratore e datore di lavoro rimane dunque perennemente relazione tra due “soggetti”, che, nel loro entrare in relazione, contraggono reciproche obbligazioni che non possono essere unilateralmente ignorate.
La storia concreta dei rapporti di lavoro è storia di costanti tentativi di reificazione dell’”altro”, di negazione della sua soggettività e di schiacciamento dell’altro sulla dimensione del mero “oggetto”, disconoscendo il suo essere portatore di valori e titolare di responsabilità. Eppure la migliore cultura del lavoro si nutre invece di questa coltivazione della natura “intersoggettiva” del rapporto di lavoro che si sforza di trovare, attraverso confronti e accordi continui, un corretto bilanciamento tra i diritti fondamentali delle due parti, pur nella evidente diversità di condizioni tra lavoratore e datore di lavoro. Recuperare l’ispirazione di quella svolta umanistica, che un singolare intreccio di antropologia ebraico-cristiana e tradizione laico-socialista seppe realizzare tra ‘800 e ‘900 spostando il fulcro del lavoro dall’”avere” all’”essere” della persona, è un compito essenziale per chi voglia ripensare il lavoro nelle condizioni spesso disumane dell’oggi.
Una risposta a “Lavoro, va recuperata la “svolta umanistica” (sull’Unità, 18 aprile 2014)”
Sono ďaccordo e per questo, convinto da sempre, che ľarticolo 18 sia limitativo della dignità umana, perché garantista dei furbetti del lavoro, a discapito di chi, in quel che fa, ci crede.