Molti analisti e politologi tracciano un’analisi impietosa della situazione in cui versa – a loro dire – il Partito democratico. Schiavo di una prospettiva che definiscono “conservatorismo di sinistra” e che vedono espressa dal suo segretario Bersani, il PD anziché emergere come punto di riferimento di un’alternativa politica al centrodestra, nel momento cruciale della crisi del berlusconismo, sarebbe finito ai margini della scena politica e avrebbe clamorosamente e tristemente fallito la sua missione, quella appunto di rinnovare la politica italiana.
Il mio punto di vista è certo diverso da quello di un osservatore esterno della politica italiana ed è condizionato dal ruolo politico che esercito, ossia quello di segretario politico del Partito Democratico del Trentino, ma, anche dal punto di vista dell’osservatore esterno, avrei qualche maggiore cautela nell’analisi.
Dell’analisi mi preoccupa non tanto la conclusione: “il PD ha fallito”, ma la premessa: “siccome i sondaggi dicono che il PD ha perso diversi punti percentuali rispetto alle elezioni del 2008, il PD ha fallito”. Se questa premessa fosse vera, dovrebbero dichiarare fallimento più o meno tutti i partiti riformisti europei nonché i democratici americani che sotto la guida di Obama (un leader a cui certo non manca il carisma) hanno recentemente riportato un risultato negativo.
Forse si potrebbe imparare qualcosa dal modo in cui si fa la politica e si giudica la politica nel resto del mondo, un modo diverso da quello ormai completamente nevrotizzato del nostro paese, in cui tutto è finalizzato al successo immediato e il lavoro di lungo periodo non interessa più a nessuno.
In tutti i paesi sviluppati quando le elezioni non danno i risultati sperati, ci si interroga, si modificano le strategie, il personale politico, i programmi, ma non si decreta il fallimento del partito. Così i partiti mantengono le loro storie e le loro identità attraverso i decenni e con la loro base ideale offrono ai cittadini punti di riferimento sulle grandi questioni sociali: i diritti individuali, la giustizia sociale, l’ordine pubblico e così via.
Nel nostro Paese questo quadro si è rotto con la fine degli anni ’80 e con il crollo dei partiti tradizionali. Da quel momento la politica italiana è entrata in un grande frullatore che ha macinato idee, persone, istituzioni a un ritmo frenetico e vorticoso obbedendo a una logica di puro marketing politico. Si cambiava spettacolo ogni due anni per andare incontro alla voglia di novità del pubblico. Solo gli attori rimanevano gli stessi. Ma i partiti continuavano a cambiare nome e aspetto.
Il PD nasce in una logica diversa. Nasce come riflessione sulla storia italiana e come progetto di lungo periodo. E nasce come operazione prima di tutto ideale. Dal riconoscimento che oggi il vero e grande scontro ideale e politico tra le diverse forze in campo avviene attorno al valore dell’uguaglianza. Di fronte all’emergere di nuovi soggetti (giovani, donne, immigrati) c’è chi vuole una politica della discriminazione che consente a chi è garantito di tenere ben saldo il proprio potere sociale, dall’altro c’è chi vuole costruire una politica dell’uguaglianza di opportunità. Nel rispetto delle differenze, si vuole costruire una società basata sul pari rispetto, sulla pari dignità, sulle pari opportunità di realizzare con pienezza la propria esistenza. I democratici stanno da questa parte.
Stanno da duecento anni dalla stessa parte, dai tempi delle rivoluzioni americana e francese che hanno posto al centro della politica non i privilegi di qualcuno, ma i diritti di tutti. È questo che ha consentito a milioni di democratici italiani di ritrovare la loro unità originaria, quell’unità che nell’Ottocento e nel Novecento era stata perduta allorché si erano divisi in correnti diverse (cattolici democratici, liberaldemocratici, socialisti democratici e così via). E dal punto di vista della storia delle idee – che nella storia dei partiti è determinante – è un incredibile risultato che le forze democratiche italiane abbiano voluto riconoscere il loro valore fondante e unificante nella “democrazia”, concepita finalmente non come uno strumento per realizzare qualche altro modello di società (il socialismo o una nuova cristianità) ma come “il” modo in cui uomini e donne, che si vogliono liberi e si riconoscono pari diritti, determinano assieme il loro destino.
Questo è conservatorismo di sinistra? A me non pare proprio. A me pare una proposta straordinariamente coraggiosa e innovativa che ha bisogno di molto tempo e di molta fatica per potersi affermare con forza, rispetto alle resistenze – che pure vi sono nel PD – dei nostalgici dell’una o dell’altra parte, rispetto alle paure dei vecchi apparati di perdere il loro potere per consegnarlo ai cittadini sovrani, rispetto all’ingenuità dei nuovi che ignorano la fatica improba del lavoro politico quotidiano, quello dei muli che a testa bassa tirano la carretta, ogni giorno un metro più avanti, sapendo che la democrazia si costruisce così, con l’instancabile tessitura del dialogo e l’impegno collettivo.
È una sfida facile? Per nulla, perché oggi l’ideale democratico è tornato ad essere controcorrente.
In un paese come il nostro in cui le disuguaglianze sono cresciute non solo per via dell’inventiva personale (magari ce ne fosse di più e ci fosse tanta e sana e forte imprenditoria!), ma per via dell’appropriazione furbesca della ricchezza pubblica da parte dei più forti o dei più prossimi al potere, battersi per la democratizzazione della società non è facile, perché richiede un coraggioso ripensamento del nostro modello di sviluppo.
Ma non è questo che voci autorevoli da parti diverse ci chiedono? Quando nella Caritas in Veritate di Benedetto XVI si legge che è necessario una «revisione profonda» dell’attuale modello di sviluppo», si tratta forse di conservatorismo di sinistra? Quando il Governatore della Banca d’Italia Draghi mette in guardia dalla continua crescita del lavoro precario soprattutto giovanile, si tratta forse di conservatorismo di sinistra? Denunciare il drammatico smantellamento dello Stato sociale nelle altre regioni d’Italia ad opera del governo di centrodestra significa forse ricadere nel conservatorismo di sinistra? Provare vergogna perché la nostra società non è in grado di garantire ai credenti di religioni diverse il diritto di pregare in un luogo che sia degno di uno degli atti più intimi e profondi che un essere umano può compiere, ossia inginocchiarsi di fronte al proprio creatore e chiederne la forza per andare avanti e la benedizione sui propri cari, è conservatorismo di sinistra?
Credo di conoscere meglio di tanti altri i limiti del Partito Democratico, ma credo che questo progetto non sia già fallito né tanto meno già finito. Sono secoli che i democratici si battono per questo progetto. E per quanto riguarda noi, non abbiamo intenzione di smettere. Per noi il PD non è un progetto già finito. È appena cominciato.